Recensione del film “GHOST IN THE SHELL” di Rupert Sanders

Spesso ci si chiede cosa ci sia dietro la magia del cinema. Si parla di magia perché il prodotto finito, la pellicola che viene proiettata nella suggestiva atmosfera di una sala buia, ha un qualcosa di magico e, spesso, di inspiegabile. Perciò non esiste una ricetta prestabilita che contenga assiomi e archetipi che permettano di fare un film un capolavoro assoluto. Ma se dovesse esistere una formula segreta del genere, di certo Rupert Sanders non ha pensato di impossessarsene quando ha messo mano al manga di Masamune Shirow per trarne un film meno che discreto.

Il regista parte dall’obiettivo di rendere omaggio ad Oshii fino al punto di mancare di personalità. Lo si avverte nelle inquadrature ricreate senza originalità, nel riportare le scene d’azione del film animato con cura ma senza un’intenzione narrativa particolare. Se per i fan sarà un’agonia riuscire ad arrivare alla fine senza imprecare, i neofiti resteranno convinti che il franchise di Ghost in the Shell non abbia nulla che non abbiano già visto altrove. Infatti, il processo di semplificazione ed ampliamento della storia originale prevede di ridurre all’osso alcune componenti come quella politica, per dare spazio all’azione dal visual sensuale ed allettante.

NON É ORO TUTTO QUEL CHE LUCCICA

Per il live-action di Ghost in the Shell, Rupert Sanders ha optato per il sopravvento estremo degli effetti visivi. La città distopica ricreata, stracolma di ologrammi giganti, di pubblicità colorate alla Blade Runner, di grattacieli e cartelloni dalle dimensioni spropositate, offusca e inganna lo spettatore: ironicamente, l’ampio spazio che viene dedicato all’immedesimazione in uno spazio cupo, estraniante e labirintico, dall’effetto visivo strabiliante, rivela l’inutilità dell’azione che si svolge in primo piano. Anche perché la Shangai che aveva ispirato Ghost in the Shell di Oshii nell’adattamento animato del 1995 era sicuramente più spoglia, impersonale e uggiosa. L’effetto speciale distrae da una narrazione convulsiva, che procede a singhiozzi. Perché, nonostante l’ambizione che traspare in ogni frase, detta o ripetuta, di creare un’opera epica, lo spettacolo in scena è totalmente scarno. La bastardizzazione della figura iconica della protagonista, nel film non più centro di riflessione ma mero tramite, dimostra la vacuità di un’operazione che rende l’intera pellicola uno spot che tenta di vendere aria fritta.

LA HOLLYWOOD DI GHOST IN THE SHELL

Ghost in the Shell è il teatro dove si snoda un universo fatto da esseri umani super-potenziati e macchine vere e proprie ed è proprio questo ad essere stato il cardine filosofico del film del ’95. Oshii aveva ponderato in maniera delicata sulla frammentazione dell’essere umano e si chiedeva cosa ci rende effettivamente umani. Il libero arbitrio dominava la scena come un’ombra perenne. Motoko, nel film di Sanders semplicemente “Maggiore”, è infatti un cervello trapiantato in un corpo diverso, senza passato ma piena di dubbi. Scarlett Johanson funziona bene come cyborg, rigida e senza empatia ma ciò che non funziona è la sua ricerca di un passato.

È nella sceneggiatura che Ghost in the Shell fallisce maggiormente. La relazione tra il Maggiore e il suo creatore, il dottore Ouelet, la ricerca dei ricordi perduti, il cattivo che proprio non è un vero Burattinaio, sono solo alcuni dei punti che mettono da parte la filosofia che rendeva Ghost in the Shell unico e puntano sul dramma umano, sul patetico che non ha pathos, ma è tutto incentrato su una diluizione ridondante ed inutile di dettagli. Guardando il film animato di Oshii, dalla durata di soli 82 minuti, era evidente che si trattava di un concentrato focalizzato su un tema ben preciso, e, senza divagare, aveva una patina misteriosa che ben giocava sull’aspetto cupo della storia. Hollywood ha il difetto di palesare le evidenze per i cosiddetti spettatori cretini: è per questo che la questione dei glitch diventa una ripetizione fastidiosa, una tra tante.

GHOST / SHELL

É risaputo che il manga di Shirow ed il film animato di Oshii hanno influenzato la decade di fine anni ’90, epoca in cui il cyber-punk andava estremamente di moda e a buon motivo. Con la tecnologizzazione del globo e l’introduzione della tecnologia nella routine quotidiana e l’avvento di internet in casa di tutti, il cyber-punk era un modo di spiegare il rapporto dicotomico con la macchina. La moda di remake americana è così forte che ha voluto rilanciare un modello che non ha effettivamente senso nel 2017. Il cyber-punk è morto perché adesso ci sono nuovi modi di approcciarsi alla realtà, ancora più estremi probabilmente.

VERDETTO

   4 / 10

Il Ghost in the Shell riportato in vita nel 2017 arricchisce l’universo che era noto in partenza per condirlo con una teatralità scialba e trita, frutto della più debole delle intenzioni: mostrare umanità anche laddove non ci sia. Il fallimento sta nel fatto che basta osservare da vicino la storia nuda e cruda per comprendere che si tratta di un film senza ghost, totalmente privo di anima, e tutto shell.